L'estraneo di H.P.Lovecraft e Mauro Banfi

Non so dove sono nato, la vita mi appare da sempre come una mano di tarocchi gettata a caso sul tavolo fatiscente di una fattucchiera; so solo che il castello era terribilmente antico, pieno di corridoi bui, ombre e ragnatele, regnava dappertutto un odore terribile di muffa e corruzione…
Non c’era mai luce, il sole non superava la chioma degli alberi.
Una torre nera raggiungeva il cielo. Era possibile raggiungerne la cima solo con una scalata impossibile, aggrappandosi al muro.
Devo aver vissuto per anni nel castello, qualcuno mi avrà ben messo al mondo e ha dovuto, spero, prendersi cura di me…ma non mi ricordo di nessuno, solo di me stesso.
Mi raffiguravo una persona viva come qualcuno a mia immagine e somiglianza, ma raggrinzita e vecchia come il castello.
Per me non c’era nulla d’inquietante nelle ossa che ogni tanto rinvenivo sparse qua e là negli angoli marciti.
Per me erano più normali delle immagini di persone vive che mi capitava di trovare nei vecchi volumi della cadente biblioteca del castello.
Spesso mi sdraiavo in giardino, sotto gli alberi scuri e sognavo per ore delle cose sconosciute che avevo visto nei libri.
Mi vedevo allora in mezzo a una folla allegra di figure, ballando sotto la luna.
Una volta ho provato a fuggire nella foresta, ma più avanzavo e più oscure diventavano le ombre.
Angosciato sono tornato indietro di corsa nell’area oscura del castello.
In quella densa solitudine il mio desiderio di luce diventava così intenso che non riuscivo a stare fermo a lungo.
Dopo molte incertezze e indecisioni decisi d’intraprendere la scalata della torre nera e macilenta. Volevo per una volta vedere la luce del giorno.
Nella penombra umida m’inerpicai per la vecchia scala di pietre consumate, fino al punto in cui i gradini s’interrompevano all’improvviso.
Al buio, in pericolo di vita, mi arrampicai appigliandomi faticosamente alle crene del muro.
Dopo una lunga scalata sulla fiancata di quel profondo abisso, all’improvviso la mia testa colpì qualcosa di duro e capii che avevo raggiunto il tetto, o almeno il solaio.
La superficie sopra di me cedette. Mi resi conto che la scalata era finita, almeno per il momento.
Si trattava infatti di una botola. Strisciai attraverso l’apertura e mi distesi esausto sul pavimento di pietra. Mi rialzai e cominciai a cercare una finestra.
Pensavo infatti di trovarmi a una grande altezza, però trovai solo delle lastre di marmo, su cui giacevano lunghe casse.
Trovai anche una porta dal telaio di pietra, decorato con strane sculture.
Con un forte strattone riuscii ad aprire la porta verso l’interno.
Caddi in estasi.


Vedevo la luna splendente che conoscevo solo dai miei sogni, e facemmo finalmente una personale conoscenza.
Pensai d’aver raggiunto la cima dal castello, e corsi verso la recinzione, ma la luce della luna fu intercettata da una nuvola passeggera, e dovetti muovermi a tentoni. Il cancello non era chiuso.
Ebbi paura di precipitare, poi riapparve la luna.
Ero stupito: non mi trovavo sul bordo di un precipizio.
Dall’altra parte del cancello c’era solamente un terreno compatto, coperto da una varietà di lastre di marmo e colonne, affiancate ad un’antica chiesa semidistrutta illuminata spettralmente dal chiaro di luna.
Spinsi la porta del cancello.
Feci un passo sul sentiero di bianca ghiaia: ero risoluto a scoprire un nuovo mondo di gioia e di meraviglia.
Passando sotto un arco di pietra, mi allontanai dal campo di lapidi e colonne, vagando in aperta campagna: a volte seguivo la strada visibile, in altri momenti la lasciavo e camminavo attraverso i campi.
Dopo due ore raggiunsi un castello circondato da alberi, coperto di edera.
Mi pareva incredibilmente familiare.
Guardai le finestre aperte, piene di luce abbagliante; ne uscivano i rumori di una festa.
Guardai attraverso una finestra: vidi un gruppo di persone stranamente vestite, che parlavano allegramente.
Mi resi conto che, prima di allora, non avevo mai sentito parlare altri esseri umani.
Certe facce avevano dei lineamenti che mi ricordavano un passato lontano, e proferivano strane parole che riecheggiavano una dolente corrispondenza nella mia anima, donando un senso alla bizzarra mano di tarocchi che è stata finora la mia esistenza:
«Cin cin cara, brindiamo a quel povero deficiente in coma vegetativo di cui siamo tutori e che abbiamo sbattuto sotto nelle cantine. Alla sua eredità e alla nostra felicità, tesoro!»
Scavalcai il davanzale affacciandomi sulla sala splendidamente illuminata e diedi sfogo alla tremenda fame insaziabile che mi veniva dal profondo.
Azzannai gole, strappai occhi, maciullai orecchie, divelsi arti e li divorai.
Tutta la comitiva fu presa dal panico…tutte le facce si contorsero dalla paura, gridando a squarciagola.
Gli invitati alla festa, con le guance e le panze ancora imbottite di cibi costosi e squisite bevande, fuggirono in massa dal lussuoso salone rovesciando mobili e sbattendo contro le pareti come ratti neri impazziti, prima di riuscire a raggiungere una delle porte.
Rimasi solo: sbalordito, nella sala illuminata, con in mano il fegato del mio tutore che trangugiavo avidamente.
La sala sembrava deserta, ma mi parve di cogliere una presenza in una nicchia accanto alla porta.
“Mentre mi approssimavo al vano, cominciai a percepire quella presenza in maniera sempre più distinta, e fu allora che, col primo e ultimo suono che la mia gola abbia mai emesso, contemplai nella sua più piena e terrificante vivezza l’inconcepibile, indescrivibile e indicibile mostruosità…era lo spettro demoniaco della putrefazione, della decrepitezza e della dissoluzione; il putrido fantasma grondante dell’ampia rivelazione dello sporco che è stato nascosto sotto il tappeto, l’orrenda propagazione di ciò che la terra compassionevole dovrebbe tenere per sempre celato”.
NOTE DELL'AUTORE
La riduzione narrativa litweb è tratta dal racconto "L'estraneo" di H.P. Lovecraft, che si consiglia vivamente di leggere, se già non si è doverosamente provveduto.
Un grazie anche ai fumettisti Breccia, Kirk e Lansdale per le loro opere suggestive su Lovecraft.
Dedicato a mio nonno Guido, ex partigiano socialista che mi diceva: "continuo a pensare che in Italia e nel mondo l'ingiustizia prospera e che la quasi totalità delle gente non fa niente per contrastarla.
Regnano indifferenza e ipocrisia. Abbiamo combattuto per niente".
E infine, dedicato a quei pochi che ancora si accorgono delle differenze sempre più abissali tra poveri e ricchi. E magari decidono di scrivere su qualcosa di diverso dal loro Ego.

Nessun commento:

Posta un commento

In questa Isola sono accettati commenti critici costruttivi, anche insistiti e dettagliati, ma mai, ripeto mai offese di carattere personale, lesive della dignità umana degli autori.
Chi sbarca su Rayba si regoli di conseguenza. Qua il nichilismo non c'interessa, grazie.