Alcione e Ceice (capitolo quarto e fine) di Mauro Banfi

                            
                                     “Homo omnis creatura”, Giuseppe Arcimboldo
                                                  
                                                               
“Il marinaio di fiume Ceice viveva insieme a sua moglie Alcione presso il traghetto di Larcolago, sul fiume Azzurro.
Trasportava con la sua chiatta le merci per tutte le Terre Vaste e si sfiniva di lavoro per dare alla sua amata una casa migliore.
«Ma va bene quella che abbiamo Ceice, non c’è bisogno che lavori così tanto» lo rimproverava Alcione.
    


Ma Ceice non voleva sentire ragioni, pensava al prossimo arrivo di un figlio e accettava ogni tipo d’incarico.
Così imprudentemente accettò di portare nella pericolosa stagione delle alluvioni un carico di miglio, nel Regno delle Rapide Schiumanti.
Ceice decise di nascondere alla moglie la pericolosa navigazione, ma al momento della partenza la donna iniziò a piangere, a fiotti, intuendo la rivelazione di una disgrazia.
«Dimmi la verità tesoro mio, perché vuoi andare così lontano, verso qualcosa d’indefinito che avverto come pericoloso? Il motivo è ancora l’ampliamento della nostra casa? Parlami, non possono esistere segreti tra noi.»
Ma Ceice continuò a minimizzare il viaggio e a rassicurarla.
Alcione, ormai in preda al suo presentimento, lo implorava di portare quelle merci almeno via terra, perché sentiva che il pericolo veniva dall’acqua.
Non ci fu verso di farlo recedere dalla sua decisione e così lo abbracciò e lo baciò mentre s’imbarcava sulla chiatta, con due suoi aiutanti.
E continuava a piangere a dirotto mentre lo salutava con la mano e spariva dietro l’ansa del fiume.
                                       
La pioggia torrenziale aveva preceduto di poco l’ondata alluvionale che aveva capovolto la chiatta nel fiume impetuoso.
Il fiume si sollevava fino a lambire il cielo grigio investendo di spruzzi il naviglio capovolto.
Ceice lottava nell’acqua per non essere afferrato da un gorgo tremendo; mentre agitava affannosamente braccia e gambe, pensava con angoscia ad Alcione, l’avrebbe voluta vicino, ma nella stesso tempo era felice che fosse lontana.
Avrebbe voluto almeno guardare per un’ultima volta la loro casa, dove lei lo attendeva, ma venne risucchiato in fondo al letto del fiume da una forza sovrumana.
Intanto Alcione, ignara del terribile evento, contava le notti che la separavano dal ritorno del marito e ogni giorno offriva incenso a tutti gli dei, e in particolare al Supremo, il Suono.
Andava davanti al suo altare a pregare per il marito, perché ritornasse sano e salvo, perché non s’innamorasse di un’altra donna.
Ma il grande Suono dopo qualche giorno cominciò a non sopportare più l’idea di essere pregato per un morto, e che un cuore così puro e innocente fosse ingannato dalla vita e dalla morte a tal punto.
Allora si rivolse alla sua messaggera Iride, dea dell’arcobaleno, e le disse:
«Iride, recati alla reggia silenziosa del dio del Sonno, e digli di mandare ad Alcione un sogno, che, raffigurando Ceice morto, le riveli la verità. Solo un sogno gliela può rivelare in tutto il suo significato, senza farla morire per il dolore di colpo».
                                   
Allora Iride, dopo aver indossato il suo velo dai mille colori, descrivendo un arco nel cielo si recò come ordinato alla reggia del Sonno, che era tutta avvolta da una coltre di nebbie così fitte da coprire e cancellare alla vista anche i colori del suo splendido abito.
La sede del Regno del Sonno è una caverna profonda, verso il misterioso paese dei Cimmeri, dove dalla terra salgono sempre foschia e caligini, in un chiarore incerto di crepuscolo.
Una montagna cava, irraggiungibile dal sole sia all’alba, sia a mezzogiorno che al tramonto.
Qui non c’è l’allodola che veglia e col canto chiama l’aurora, né il silenzio è rotto dall’abbaiare di cani guardiani o dalle ancora più stridule oche.
Non si ode nessun suono di bestie selvatiche o di mandrie al pascolo, né di rami mossi dal vento, nessuna voce umana rompe il silenzio denso e avvolgente.
Solo sgorga dalla roccia un ruscello del Lete, il fiume dell’Oblio, la cui acqua scivola via mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno.
Davanti alla caverna ci sono cespugli di rossi papaveri, i fiori ipnotici del sonno e dell’oblio, ed erbe officinali che la Notte tritura nel suo oscuro mortaio e infonde nelle acque del Lete per diffondere la Dimenticanza e spalancare le pareti dell’anima all’avvento del popolo dei Sogni.
Essi giacciono addormentati nella reggia senza porte e senza guardiani, innumerevoli come le spighe in un campo di grano e le ghiande su una farnia, attorno alla figura incorporea del loro Signore addormentato.
Su un materasso di morbidissime piume Sonno giace addormentato, come se riposasse su una nuvola.
Non appena Iride entrò nell'antro incolore e nebbioso, la sua veste accese di luce e colori vivaci le pareti della stanza, e lo sfavillio delle tinte, e la vivacità stessa che emanava dall'agile messaggera, svegliarono il Sonno che si stropicciò lentamente gli occhi, mentre i Sogni davano qualche segno di risveglio, a poco a poco muovendosi nel loro letargico riposo.


Le chiese il motivo per cui era venuta, e lei, senza indugiare (sentiva infatti un torpore avvolgerle gli occhi e le membra) gli disse:
« Sonno, quiete di tutte le cose, tu sei il più placido dei numi, che fai riposare il corpo e l'anima afflitti dalla fatica e dal travaglio, tu, l'unico capace di sedare il dolore che ci invecchia e ferisce, tu che hai pietà delle cose e degli umani, e li riconduci alla loro origine dormiente, al silenzio in cui riposava l'universo, tu che lenisci le ferite che nessun dio può guarire; c'é una donna, che ogni giorno prega il Supremo degli dei, il Suono, affinché il suo uomo stia bene e torni dal fiume, dove invece da giorni é affogato e perso senza sepoltura. 
Manda un tuo Sogno a visitarla, fagli assumere la forma del marito perduto, e rivelale, con quelle mentite spoglie, la sua morte. Solo cosi la donna, Alcione, smetterà di tormentarsi crudelmente».
                                         

Allora il Sonno, il dio misericordioso che chiude le ciglia lacerate e rose dalle lacrime e dalle pene, commosso dalle sue parole, dopo un paio di sbadigli chiamò Morfeo, di tutti i Sogni il più abile ad assumere qualunque sembianza di figura umana.
Morfeo assume volto, corpo, andatura, voce di chiunque, fino a divenirne identico. Ma é specializzato solo nelle persone. 
Fobétore, invece, che stava mezzo addormentato ad ascoltare gli avvenimenti, é insuperabile nell'assumere forme animali, di quadrupedi, uccelli, pesci guizzanti, delfini. 
Poi c’è Fantaso, il terzo e ultimo oniromorfo, che con perfetto inganno sa trasformarsi in terreno, paesaggio, sasso, onda, trave, in tutto quanto, in sostanza, sia inanimato e minerale.
«Vola Morfeo, e fai come ha detto la messaggera del Suono», e detto questo ricadde addormentato sul materasso in pochi secondi.
Nel frattempo Iride fuggiva per evitare di cadere addormentata. 
Infatti il torpore ora la avvolgeva interamente, ma come fu fuori l'arcobaleno le riaccese lo sguardo e fu di nuovo inebriata dalla luce e dai colori, e lo attraversò rapida e luminosa.
                                               
                                                                            - Iris e Morfeo -
Morfeo se ne volò via per le tenebre, con le ali che non facevano il minimo fruscio come quelle dei gufi reali e dei barbagianni, e in breve tempo giunse alla casa vicino al traghetto di Ceice e Alcione, e assunse la figura dell'uomo, divenendone identico, ma non come l'aveva visto partire la donna.
L'immagine corrispondeva al vero, a quella di un uomo affogato, pallido, smunto, cadaverico, senza uno straccio addosso, con la barba lunga e gocciolante, e i capelli inzuppati di acqua fluviale. 
Cosi si avvicinò al letto di Alcione, e curvatosi su lei, col viso inondato di pianto le apparve dicendole: 
«Mi riconosci, Alcione, riconosci l'ombra di tuo marito Ceice? Si, moglie infelice, io non sono più Ceice ma la sua ombra, sono morto. 
Le tue preghiere non sono servite a niente, e da giorni preghi per un vivo che é morto. Sono ancora io, ai tuoi occhi, o la morte ha cancellato i miei lineamenti? 
Vorrei che almeno mi vedessi, ora, in sogno, poiché anche il mio cadavere  ti é stato negato finora dal fiume.         
Cercavo di portare un carico di miglio per arricchirmi e ampliare la nostra casa; non ti ho ascoltata e l’ondata di piena mi ha inghiottito, come tu avevi previsto.
Una spaventosa tempesta ha sorpreso la chiatta dalle parti degli Isolotti Sabbiosi, e l’ha scossa e capovolta.
                                               
La corrente gelida del fiume Azzurro in piena ha riempito la mia bocca che gridava invano il tuo nome. 
Queste cose non te le annuncia uno spettro maligno di cui tu possa dubitare o un demòne: sono io, Ceice in persona, a comunicarti la mia morte. 
Ricordati che ti ho amata infinitamente ed è stato solo per offrirti una casa più grande, dove allevare i nostri figli, che sono partito per compiere questo pericoloso lavoro.
Ma ora non ti resta che ricordarmi come mi hai visto, poiché vedo che mi riconosci, che stai per piangere, ora alzati e onora la mia morte, perché almeno non me ne vada senza onori e memoria nell’Ade, dove tutto é vano senza memoria ».    
La voce di Morfeo era la stessa del marito, e anche il pianto, e forse Morfeo piangeva davvero: come puoi imitare realmente un uomo senza immedesimarti nei suoi dolori? 
Sì, Alcione piangeva, pensando al regno senza luce e speranza dell’Ade e a lei, miserabile, che non poteva trattenere il marito. 
Infatti lei si dimenava nel sogno e piangeva e cercando di afferrare quel corpo abbracciò l'ombra, e gridò: «Aspetta, dove fuggi? Non abbandonarmi ancora! Andremo insieme! »    
 Ma mentre Morfeo svaniva con l’immagine del marito scomparso, pallido, fradicio e nudo, eppure inconfondibile, si dileguava la pietà del Sonno.
Ora, desta, nella crudele luce della veglia, gridava, perché ora il vuoto era totale, ora anche l'ultima immagine del marito era scomparsa per sempre verso un regno buio e informe dove non c’è né speranza o pietà, irraggiungibile dal desiderio di uomini e dei. 
E vedendo che non c'era più, che era proprio scomparso per sempre, che non ci sarebbe mai più stato, strappandosi i capelli, cominciò a urlare al sole che stava nascendo:
«Alcione non c'é più, Alcione é morta, smetti di scaldarmi come si tocca un vivo per dargli conforto. 
Alcione non é più tra voi, viventi, questo almeno le sia concesso dalla bontà degli dei che uccidono a loro capriccio. 
Ceice é morto, é morto affogato, l'ho visto, ancora lui, per la bellezza e lo sguardo e la voce, ma nel trapasso da quello che era a quello che sarà tra poco, nel regno buio dell’Ade. 
E lui mi ha detto che é morto, che l'acqua del fiume in piena ha sostituito il mio nome nella sua bocca.
Per sempre, Alcione, non c'é più, giù le mani, giù tutto il corpo. 
Io sono morta, questo almeno mi sia concesso. 
Avessi potuto morire subito con lui, come gli avevo chiesto, ma lui per mio amore non mi aveva voluto accanto. 
Gli uomini non capiscono che l'amore ti lega nella vita e nella morte. 
Cosi io sono ugualmente morta senza avere sentito l'onda della piena nella mia bocca, senza avere visto con te per l'ultima volta il cielo e il tuo volto, senza averti lasciato l'impronta del mio sguardo nei tuoi occhi, che forse ti avrebbe salvato dal buio eterno, per la sola violenza del ricordo che resuscita. Morta! Ma adesso decido io, e tu, Sole, allontanati, non toccarmi, non toccare una morta. 
Io che non ho saputo seguirti in fondo al tetto del fiume non valgo più niente.»
Era mattino inoltrato, ormai, e dopo aver pianto le ultime lacrime Alcione corse in direzione degli Isolotti sabbiosi, dove aveva visto svanire il marito all'orizzonte. 
Ripercorse per tutto il giorno, via terra, il percorso dell’ultima tragica spedizione di Ceice, quando vide affiorare in lontananza qualcosa di simile a un corpo. Inizialmente non si capiva bene che cosa fosse, ma poi, avvicinandosi, fu chiaro che era un corpo umano, di un affogato, che il fiume pietoso riportava sulla sponda ghiaiosa. 
Allora lei, singhiozzando disperatamente, poiché da tempo sapeva che ormai parlava da sola, che nessuno sarebbe stato più a sentirla, disse:
 « Sventurato, chiunque tu sia, io piango per te, e per la tua donna, chiunque sia, perché io posso comprendere. Tra poco sarò morta, ma tu hai l'ultima preghiera e l'ultima parola di amore da me vivente. Perché io amo te come se tu fossi mio marito, e la tua donna come fosse me stessa».
E mentre il cadavere si avvicinava, lei vide, livido, gonfio, raggelato da tempo dalla morte, il corpo di suo marito Ceice, e si avvicinò a lui ancora lontano nella corrente, si avvicinò perché stava volando, e planò lenta sul suo petto e lo baciò e lui si scosse, e il volto livido e gonfio mosso da un improvviso, lento respiro, riacquistò d'incanto l'antica bellezza, mentre a poco a poco tutto il suo essere si mutava in uccello, e le sue ali appena nate, sfiorando quelle della compagna si librarono in cielo. 
Travolti dallo stesso destino, il loro amore rimane e continua a legarli allo stesso Fato, e il patto coniugale non si scioglie neppure ora che si sono trasformati in Martin Pescatori, per volere e pietà del Signore del Cosmo, il Suono.
Si accoppiano e diventano genitori, e per quattordici giorni sereni, nella stagione invernale e durante l’equinozio di primavera, Alcione cova in un nido scavato a colpi di becco nella sponda dei fiumi.” 
                                                                  
Syd si svegliò di colpo, tutto sudato.
Il sogno era finito.
Accese la lampada e davanti alla sua tenda scorse una strana figura alta e allampanata.
                                                            
«Vieni fuori Syd, tra poco spunterà l’alba della tua liberazione».
Sbalordito Syd, con prudenza, aprì la tenda e guardò fuori e vide qualcosa di sbalorditivo.
C’era una figura umana composta da migliaia di uccelli: pavoni, allodole, aironi, civette…
                 
«Sono Fobetore, lo zoomorfo, il Signore dei sogni animali; ci siamo incontrati poco tempo fa nel tuo sogno, ricordi?
Non fare quella faccia, non avere paura: l’uomo è la creatura del tutto e il tutto è il Suono.
La verità del mondo non si trova tanto nei libri che raccontano il mondo quanto nel mondo stesso.
Ci sono vite che non conoscono e conoscenze che non vivono.
L’uomo è ogni creatura.
Tu, Syd, che cosa vuoi essere?
Preparati che andiamo a osservare il primo volo dei Martin Pescatori.»
Syd si preparò e seguì Fobetore verso il centro della spirale.
Mentre camminavano domandò:
«Ma Mosco dov’è finito?»
« E’ ritornato a casa senza dirti niente: l’ultimo tratto della via della liberazione può essere percorso solamente con le proprie gambe».
Arrivarono al piccolo antro/osservatorio, confinante con il nido dei Martini e si prepararono ad assistere, guardando il vetro, al prodigio fondamentale della loro esistenza.
                                                 
Ventiquattro giorno dopo la nascita i giovani Martini erano pronti all’involo.
I loro genitori portarono al nido gli ultimi bocconi di pesce e li usarono come esca per indurre i piccoli, uno dopo l’altro, a lasciare il nido.
I genitori prima avanzano nel corridoio che portava alla loro camera interrata e poi arretravano, inducendo i giovani Martini a seguirli fino a uscire all’esterno del nido, per volare liberi nel cielo azzurro!
«Che meraviglia!» urlò di gioia Syd mentre l’ultimo dei Martini volava libero verso il Lago Azzurro.
Si voltò e Fobetore era svanito, come anche Mosco era già in cammino verso il ritorno.
Syd smontò la tenda e preparò la sua sacca da viaggio: era tempo di riportare tutta quella gioia a casa.

   

  - FINE -

...in cammino con la compagnia del Weird, verso casa...  
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