04/08/16

THOUREAUIA*

                                                         

- alle amiche e agli amici in viaggio;
- a Paolo Rumiz, che possa presto ripartire.

«Oggi esistono molti professori di filosofia, ma filosofi nessuno».
Henry David Thoreau.   

                     

                  
“Un giorno che ero uscito per andare alla mia catasta di legna, o piuttosto alla mia catasta di ceppi, osservai due grandi formiche, una rossa e una nera (questa molto più grande della prima e più lunga di quasi mezzo pollice) che combattevano ferocemente fra loro. Una volta che riuscirono ad afferrarsi, non si lasciarono più andare, ma lottarono e combatterono e si rotolarono senza posa sulle scaglie di legno.    
Guardando più in là, fui sorpreso di scorgere che le scaglie erano coperte di altri simili combattenti, e che quello non era un duellum, ma un bellum, una guerra tra due razze di formiche, le rosse sempre schierate contro le nere e, spesso, due rosse contro una nera.
Le legioni di questi Mirmidoni coprivano tutte le colline e le valli della mia legnaia, e il terreno era già cosparso di morti e morenti, rossi e neri. Fu la sola battaglia alla quale io abbia assistito, il solo campo di battaglia sul quale io abbia mai camminato, mentre la lotta ancora continuava; era una guerra mortale; da una parte c’erano i rossi repubblicani, dall’altra i neri imperialisti.
Le due fazioni erano impegnate in un duello mortale, ma non si poteva udire rumore alcuno, e però credo che mai soldati umani combatterono con pari risolutezza.    
Osservai una coppia strettamente allacciata in un mutuo abbraccio, in una piccola valle solatia in mezzo alle scaglie di legno, ora, a mezzogiorno, pronta a combattere finché il sole o la vita scomparissero. Il più piccolo campione rosso si era stretto come una tenaglia alla parte frontale del suo avversario, e malgrado tutti i capitomboli, su quel campo, non smise neppure per un istante di rosicchiare, alla radice, una delle antenne del suo nemico, che già aveva completamente privato di un’altra; intanto, la formica nera, che era la più forte, sbatteva quella rossa da una parte e dall’altra; come vidi avvicinandomi, l’aveva, a sua volta, già privata di diverse membra. Combattevano con maggiore tenacia di bulldogs, e né l’una né l’altra appariva disposta a ritirarsi. Era chiaro che il loro grido di battaglia era «Vincere o morire». Nel frattempo giunse al declivio di questa valle una formica rossa, isolata, chiaramente piena di eccitazione, o perché aveva ucciso il proprio nemico, oppure perché non aveva ancora preso parte alla battaglia; probabilmente l’ultima supposizione era la più vera; ché aveva ancora tutte le membra intatte; sua madre doveva averle comandato di ritornare o con lo scudo o sopra di esso.    
O forse era un qualche Achille il quale, appartato, aveva nutrito la propria ira, e ora veniva a vendicare o salvare il suo Patroclo.
Vide da lontano questa lotta impari — perché le formiche nere erano grandi quasi il doppio delle rosse — e si avvicinò con rapida andatura. Si mise in guardia, a mezzo pollice dai combattenti; poi, cogliendo il momento opportuno, balzò sul guerriero nero, e cominciò le sue operazioni vicino alla radice della zampa destra anteriore, offrendo le sue proprie membra all’attacco dell’avversario.
Così ora c’erano tre formiche, unite per la vita, quasi fosse stata scoperta una nuova specie di attrazione che rendesse inutile ogni altro tipo di legame e cemento...
Raccolsi una scheggia sulla quale le tre formiche, che ho così minuziosamente descritto, stavano combattendo e me la portai a casa; qui la misi sotto un bicchiere, sul davanzale, per vedere come sarebbe finita. Osservando con un microscopio, vidi che la prima formica rossa, sebbene stesse rosicchiando assiduamente la vicina zampa anteriore del suo nemico — dopo avergli strappato ciò che rimaneva dell’antenna — aveva il petto completamente sfondato, sicché le parti vitali di esso erano esposte ai colpi di zampa della formica nera, la cui corazza appariva troppo spessa perché l’avversario rosso riuscisse a perforarla; e i neri carboncini degli occhi del ferito scintillavano con quella ferocia che solo la guerra poteva eccitare. Combatterono sotto il bicchiere per un’altra mezz’ora, e quando guardai ancora, il soldato nero aveva strappato dai corpi le teste dei suoi nemici le quali, ancora vive, gli pendevano da ambo i lati, come spaventosi trofei dal pomo della sella, chiaramente ancora stretti a lui più che mai. Con deboli scossoni — poiché era completamente senza antenna e gli era rimasto solo il troncone di una gamba, e inoltre aveva non so quante altre ferite — il formicone nero tentava di liberarsene: alla fine, dopo più di mezz’ora di sforzi, ci riuscì. Alzai il bicchiere e la formica uscì sul davanzale, tutta storpia. Non so se alla fine sia sopravvissuta al combattimento o abbia passato il resto dei suoi giorni in qualche Hôtel des Invalides; comunque, mi dissi che le sue capacità lavorative non sarebbero state molto efficienti, in futuro. Non seppi mai quale fazione vincesse, né la causa che provocò la guerra; pure, per il resto di quel giorno, mi sentii eccitato e tormentato come avessi assistito alla lotta, alla ferocia e alla carneficina di una battaglia tra uomini, avvenuta di fronte alla mia porta di casa…”    (1)

    
                            



Thoreau asciugò il pennino d’oca e lo pose nel calamaio, poi richiuse il quaderno intitolato “Walden”.   
Il quattro luglio 1845, la festa dell’Indipendenza, Henry David Thoreau, a ventotto anni lasciò la sua città natale di Concord e andò a vivere sulle rive del lago Walden, in una capanna da lui stesso costruita.   
Era già lì da più di un anno.    

        
                    
 

Coltivava il suo orto, leggeva, osservava gli alberi, il cielo e gli animali; passeggiava nella natura o fino a qualche villaggio vicino, dove s’intratteneva con i suoi amici.   
Faceva qualche lavoretto in casa, nuotava tutti i giorni, almeno una volta, nel laghetto e soprattutto scriveva.   
Cercava la libertà immergendosi nei ritmi della natura, e diffidava di chi celebrava la natura senza amare il mito e il racconto della natura stessa tramite l’immaginazione umana.    

    
                                       
                     
Il mito ci presenta immagini con cui crea il sogno della natura: ci dice che anche noi siamo in quel sogno; e lui parlava con Pan nel folto del bosco e con Artemide in un plenilunio vissuto ai bordi del lago.    

  
                                                      
                           

La battaglia delle formiche l’aveva molto impressionato.
Era chiaro che lui non voleva diventare come uno di quegli insetti/guerrieri ossessionati dalla distruzione del proprio avversario.
Henry David non voleva diventare uno schiavo dei suoi bassi istinti.

Chi è schiavo?   
Chi non ha tempo da dedicare alla costruzione di sé, chi non può disporre di sé.   
Chi ha paura della solitudine, della povertà e della contemplazione.
I miei connazionali del Nuovo Mondo sono ossessionati dal correre dietro l’oro e il denaro e si buttano nel lavoro fino a farsi mancare il respiro come cani da guardia soffocati dal fine corsa del loro collare alla catena fissata nel muro.   
E’ stata inculcata in loro la vergogna del riposo e la meditazione è considerata un’attività per fannulloni che devono essere puniti con l’emarginazione sociale.   
In questo modo hanno fatto del lavoro la migliore delle polizie politiche, impegnata a sradicare e a sopprimere tutto ciò che è individuale.
Infatti, come si può sviluppare una forte e consapevole personalità, fatta di cognizione, desiderio di vita vera e autosussistenza, quando bisogna continuamente ripetere compiti privi d’interesse e di vera umanità, brutali?   
Il lavoro coatto logora, consuma la forza psicofisica, impedisce di pensare, meditare, camminare, sognare.   
Più gli individui lavorano e si consumano, più la società si sente sicura e protetta all’interno del suo gregge: guai a chi vuole restarsene da solo, senza inseguire la ricchezza e la frenesia.   
In verità il lavoro non è difendibile se non quando è accompagnato dalla gioia di farlo.